Saper leggere la bioetica

24.12.2012 07:36

 

di C Bellieni
Oggi più che mai, la bioetica deve essere fondata sulla ragione e sull’esperienza del reale, perché l’etica è esclusivamente legata al conoscere, cioè al riconoscere. Questo ci porta ad inevitabili conseguenze.
 

Premessa

 

a)La bioetica nasce dal riconoscere la realtà 

La ragione è approcciare la realtà cercando di non censurare nulla, abbracciandola secondo la totalità dei suoi fattori. Ma contemporaneamente non dimenticando nulla di noi: la nostra storia e i nostri desideri. Confrontare storia e desideri con la totalità dei fattori di ciò che incontriamo significa conoscerli, dunque farne esperienza. L’uso della ragione nella conoscenza implica due cose: che non ne censuriamo nulla a priori (ragionevolezza), e che addirittura siamo disposti a cambiare qualsiasi opinione che ci siamo pre-formata, se la realtà del fatto che affrontiamo lo impone (realismo). E, terza premessa, che la realtà ci interessi davvero: senza interesse ogni giudizio etico è formale e superficiale, dunque artefatto.

b)    Certi giudizi etici dipendono da pregiudizi legati al vissuto personale
Le reazioni affettive ad un evento avverso hanno anch’esse bisogno della mediazione della ragione per organizzarsi e sbocciare. Non sono immediatamente sviluppate dall’evento che le produce. Perdendo la capacità di ragionare, subentra un meccanismo che potremmo definire sottocorticale, cioè stereotipato, che talora sfocia in patologia, in pensiero catastrofico, che così tanto imbibisce la nostra società.
L’ipotesi che io sollevo, è che alla base di tanti fenomeni etici “nuovi”, come suicidio assistito, liberalizzazione della droga, aborto facile, ci sia una mentalità negativa che diventa una patologia sociale: una paura e una negazione del reale di alcune persone, che contagia la visione del reale della popolazione, la rende pessimista e nichilista, tanto da preferire la morte ad affrontare la realtà.
 

QUATTRO PUNTI PER UNA LETTURA DELLA BIOETICA
 
 
1    La bioetica non deve seguire “principi”, ma “la realtà”
 
Il primo passo per una nuova bioetica è superare la bioetica dei princìpi o quella delle conseguenze, che cercano di dettare delle norme accettabili da tutti, ma che trovano difficoltà a mettere dei paletti, dato che per esse la persona decide autonomamente (principialismo) o che il fine giustifica i mezzi (consequenzialismo).
Si deve tornare ad una bioetica basata sulla ragione (non censurare nessun fattore del fatto reale), sul realismo (accettare di cambiare idea se la realtà lo impone) e sull’empatia (l’amore o almeno l’interesse verso il soggetto che si ha davanti). Senza queste tre dimensioni, il giudizio etico è un giudizio burocratico, fatto per nascondere le nostre fobie e patologie mentali. La persona etica non è chi segue le norme, ma chi riconosce nella realtà un disegno buono (una legge naturale) e cerca di seguirlo. 
 
 
 
2 Parte della bioetica contemporanea nasce dalla paura e dall'irrazionalità
 
E la società postmoderna è satura di irrazionalità, dato che il massimo ideale del postmodernismo non è la scienza, come avveniva nel secolo XX, ma il proprio parere, l’istinto. Dunque il solipsismo che ne deriva contagia tutti gli aspetti con tante vie di ingresso nella vita dei gruppi e degli Stati. Ma da dove nasce l’irrazionalità sociale?
 
PRIMA SORGENTE DELL'IRRAZIONALITA': SENSO DI SENTIRSI SOPRAVVISSUTI
 
Un tratto sociale distintivo dell’epoca attuale è il senso di “essere sopravvissuti”.
Intendo con questo, segnalare la sensazione che nell’attuale clima riproduttivo, chi nasce è certamente frutto di una scelta ben precisa e programmata, sia nei tempi, che nel numero, che nella qualità.
Oggi non si nasce più per caso, cosa forse un tempo eccessivamente lasciata alla ventura, ma attualmente vista come vera e propria eresia.
 
Oggi si nasce programmati. Addirittura la società eugenista ha delegato sulle spalle delle donne con gli screening genetici prenatali nei fatti socialmente
obbligatori, il ruolo di sceriffi genetici, che “vigilano” nel non far approdare alle sponde della società i soggetti non desiderati, per numero e quantità.
Chi nasce sa di essere passato attraverso questo setaccio genetico, anche nella migliore famiglia. E questo genera un senso di survival, cioè
ingloba allo stesso tempo il senso di colpa (“sono sopravvissuto a spese di altri ‘fratelli’ embrioni eliminati prima o dopo di me”) e di onnipotenza
(“sono sopravvissuto perché sono invulnerabile”)1.
 
SECONDA SORGENTE DELL'IRRAZIONALITA': VOLERSI SENTIRE PERFETTI
 
Altro tratto distintivo della società postmoderna è l’obbligo sociale all’omologazione. Coppie che omologatamente decidono di avere al massimo un figlio, anziani che si mascherano da bambini. Il tutto per un’ansia di perfezione richiesta per avere il “passaporto di cittadinanza” legato ai canoni occidentali e consumisti.
Il senso di essere sopravvissuti e di dover essere perfetti generano un’anomalia nei rapporti quotidiani con se stessi e con gli altri, tanto da rendere normale la selezione del migliore, il rifiuto dell’imperfetto. E generano ansia sociale, riducendo la civitas ad una scialuppa di salvataggio, una zattera dove sono abbrancati i pochi sopravvissuti o i pochi che si ritengono meno “imperfetti”. E quale è il sentimento che si prova in una zattera, o sulla cima di un monte dopo un atterraggio di fortuna con pochi compagni e poco cibo, o su un’isola deserta? 
 
 
3    Si diventa cannibali morali
 
 
Ecco dunque che la società postmoderna, malata di apparenza e di sensi di colpa, cannibalizza i suoi figli2.
È un cannibalismo verso le donne, ridotte a genere di consumo, verso chi non ha autonomia mentale (feti, malati mentali) per cui si aprono le porte all’eutanasia prenatale e postnatale, verso i Paesi in via di sviluppo, dove il neo-colonialismo sposta le fabbriche per succhiare fino all’osso la capacità lavorativa dei bisognosi a condizioni che i lavoratori occidentali (che hanno raggiunto il benessere checché se ne dica) non vogliono nemmeno sentirsi proporre.
 
 
È un cannibalismo verso i bambini che si chiama pedofilia, figlia della pedofobia, cioè dell’esclusione dal sociale di chi non è conforme, di chi è totalmente non assimilabile, totalmente altro, totalmente dipendente e non autonomo. Il bambino viene accettato solo nella misura in cui si rende “adulto” o “giovane”. L’assenza di controllo sociale dato dall’assenza di socialità è un altro dei passaggi attraverso cui dalla pedofobia si passa alla pedofilia: tutti sono rinchiusi nel loro guscio e i figli che una volta erano di tutti ora sono “invisibili”.
Non si tratta di una mera violenza a fini egoistici: questa si ha nelle guerre, nelle gelosie, nei fratricidi per motivi di eredità. La violenza cannibalica invece non comprende più di star facendo il male, e lo scambia, equivocando, per una forma di bene, sia nell’aspetto di evitare la sofferenza del figlio, sia nell’aspetto di auto nutrimento per la speranza di – così facendo – sanare una ferita narcisistica legata all’imperfezione.
Per questo il cannibalismo sociale è autopunizione e contemporaneamente censura: autopunizione per non aver saputo censurare chi è nato come un “fuorilegge genetico”3, per non aver saputo curare i poveri, per non aver trattato le donne da persone; e censura della propria imperfezione, fragilità, avidità che non si vuole vedere, ammettere, lasciar esistere.
Il cannibalismo sociale si esprime con l’emarginazione di chi è ultimamente diverso: poveri, malati, immigrati, bambini, e ancora terribilmente le donne che non si vogliono omologare al ruolo di ornamento che la società occidentale ancora attribuisce loro, in misura vergognosamente forte e retriva. È quest’emarginazione che non si vuole vedere,
perché la sentiamo come colpa e come capace di svelare la nostra debolezza ultima, la nostra disabilità.
Perché esiste una disabilità fisica e mentale, che spesso mascheriamo dato che nessuno è immune dall’imperfezione: il gioco della società “evoluta” sta in chi è più bravo a nasconderla. Ma esiste anche un terzo tipo di disabilità: la disabilità affettiva, che distrugge per non abbracciare, per non essere svelato nei propri limiti.
Perché nella società postmoderna la soglia di stress, cioè di accettazione dell’imperfezione in sé e negli altri è terribilmente bassa e ogni imperfezione viene vista come una ferita sociale che introiettiamo e di cui ci sentiamo al tempo stesso tutori e responsabili.
 
a) Tutori, perché facciamo le veci dell’eugenismo di Stato, e non permettiamo che il nucleo sociale venga infettato da arrivi imperfetti.
b) Responsabili, perché ben conosciamo il nostro limite e la nostra imperfezione e per farcela perdonare non perdoniamo quella negli altri.
Proprio come fanno gli “apostati”, dopo la sconfitta di una fazione, che spesso diventano i peggiori nemici e persecutori della fazione cui appartenevano. Ma non riusciamo in realtà a perdonarla neanche in noi, e al momento giusto gettiamo la spugna sul fronte della vita.
Ecco dunque perché censuriamo la nostra imperfezione: siamo custodi e clandestini allo stesso tempo; guardiani e partigiani disperati.
Dunque le forme di aggressione alla vita non sono violenza egoista o autocelebrativa, ma cannibalismo disperato, che nasce dall’incapacità sociale di concepirsi come individui con un valore in sé, ma solo a certe condizioni, criterio mutuato dalla cultura della qualità della vita.
Nasce, il cannibalismo sociale, da una implosione di un sistema, da un crollo interno irresistibile che nasce da un sistema utopico e violento.
 
 
4    La rifondazione della bioetica 
 
Serve dunque andare oltre un livello di dialogo bioetico basato su schemi: il personalismo contrapposto al consequenzialismo o al principialismo.
Perché la bioetica nasce dall’etica, ma non esiste etica senza una passione etica.
L’etica non è data dalle regole che si seguono, ma dall’animo che abbiamo; qui si fa la differenza, perché invece le varie scuole etiche hanno la pretesa di dettare delle regole per uniformare i comportamenti, ma così facendo si elimina una caratteristica umana, la bontà; e si burocraticizza un comportamento che per sua natura è vario, e può andare anche oltre il puro “dovere”. L’etica insomma è alta laddove l’animo umano è alto, cioè capace di seguire e riconoscere qualcosa di davvero alto. In altre parole, per rifondare l’etica bisogna rifondare l’animo umano, come insegna Benedetto XVI.
Non si può pretendere che degli schemi regolino i rapporti: saranno sempre compromessi, seppur i migliori possibili. Ma saranno compromessi freddi, che non guardano in faccia l’altro e nel cuore se stessi. L’etica nasce dall’estetica, cioè dal riconoscere la legge naturale e la natura come segno di un mistero buono. Su questo inevitabilmente non saremo mai tutti d’accordo, molto probabilmente più per fobie personali che impediscono di vedere la vita come “buona”, piuttosto che per vero ragionamento. Ma è forse un male la mancanza di unanimità, se è chiaro dove sta il bene?
 
 
1 B. Bayle, L’embrione sul lettino. Psicopatologia del concepimento umano, Koinè, Roma 2005.
2 J. Savulescu, The embryonic stem cell lottery and the cannibalization of human beings, in «Bioethics», 16, 6 (2002), pp. 508-529.
3 M. Tankard Reist , Defiant Birth: Women Who Resist Medical Eugenics, Spinifex, North Melbourne 2006.
 
Da AAVV: "Scritti in onore d SE Mons Elio Sgreccia" Cantagalli Ed, 2012